OCR (faithful layout from the original typed text): Teresa Rampazzi Un parametro alla deriva. Un altro in avanzata published in «Quaderni del Conservatorio “G. Rossini” di Pesaro, Tecnomusica/1», Creazione musicale e tecnologia, Pesaro, may 1977, pp. 1-17. ============================== Un parametro alla deriva. Un altro in avanzata. Il primo si chiama o si chiamava "altezza" il secondo abbiamo cominciato a chiamarlo da Varèse in su, densità massa già con vario accezioni. del termine. Sembrerebbe superfluo dire subito che non bisogna confondere densità con intensità ma é meglio dirlo: il piano o forte non c'entrano con la quantità dei segnali (ma una volta era più difficile distinguerli); (in termini più acusticamente corretti l'ampiezza d'onda è indipendente dal numero d'onde). Nel passato qualcosa è accaduto che potrebbe far pensare ad un uso di que- sto nuovo parametro e, guarda caso, lo troviamo nelle grandi epoche poli- foniche corali; lasciamo andaro il fatto che oggi proprio per amore del concetto "masse" rifiutiamo qualsiasi ritorno alla polifonia,; questo è un rifiuto Che riguarda le forme non i parametri. In una messa di Josquin de Pres dove il comportamento di ogni singola vo- ce è altamente differenziato, complesso, ma coordinato, ciò che conta per l'orecchio è il fatto complessivo non tanto il comportamento del sin- golo. Essendo la voce umana l'evento acustico più complesso nel campo dello spettro armonico, è chiaro che l'insieme di molte vocil a diversi percorsi produce anche percezioni di massa sebbene non sia questa l'inten- zione. Anche per i responsori gregoriani o per i "concerti grossi col nostro ba- rocco con le loro contrapposizioni dei "tutti" al "solo" o "concertino" si potrebbe pensare che veniva evidenziata una "densità" sonora maggiore o minore, ma certo non era questa l'intenzione; c'é solo il nostro ascolto che si é modificato nei riguardi delle opere del passato; forse si gira in tondo ma non ci si ritrova mai nello stesso punto ! Pare che certo con- cezioni individualistiche o collettivistiche si alternano anche nella storia della musica. Per Russel il soggetivismo moderno é nato con Car- tesio "la cui certezza fondamentale é l'esistenza di sé stesso" da cui si deduce il mondo esterno. In musica la melodia accompagnanata é l'espres- sione più evidente di questa concezione individualistica se proprio vo- gliamo metterci nei guai filosofando sulla musica. In una melodia ogni suono ha una sua altezza precisa (o credevamo che l'avesse), una sua funzione rigidamente coordinata per quel riguarda la successione [p.2] (non si dubitava cioé del parametro tompo del prima a del dopo). In roaltà quegli indivfdui, cioè le note musicali come ancora oggi qualcuno le chiama, erano delle grosse molecole sonore con un codazzo di satelliti che arrivavano agli ultra suoni ma noi non lo sapevamo o piuttosto non ne tenevamo conto; li avevamo sistemati come individui di diversor peso: al- cuni tiranneggiavno gli altri e alla fino uno solo aveva il sopravvento secondo le buone regole di una società ben organizzata. Poi quelle mole- colo si frantumarono e noi localizzammo le particelle elementari e le chiamammo con i nomi dei numeri naturali: numeri esattamente corrisponden- ti ad ogni frequenza periodica; erano le nostre nuove altezze, ma così isolate non ci dicevano proprio niente. Alla ricerca dunque dei loro rap- porti. Ma i tempi corrono; non solo abbiamo già messo in dubbio quelle minimissime chiare frequenze e la loro forma sinusoidalo quadrata o trian- golare ma anche certi schemi di rapporti matematici tradizionali non servi- vano più; e allora abbiamo cominciato a parlare di "gruppi" "zone" o "ga- lassie. Visto al microscopio l'evento fonico si presenta così complonsoso, se pur analizzabile che il musicista può anche per un momento sentirsi in crisi; non può dimenticarsi dei dati scientifici e dove derivarne altri principi compositivi. Naturalmennte intervengono gli acustici e si doman- dano cosa esattamente il nostro orecchio può percepire mentre i musicisti sono corsi già avanti e rispondono cosa gli si può far percepire magari violentandolo. Solo così possiamo andare alla ricerca di nuovi principi compositivi al di fuori dei sistemi conosciuti così come si è usciti dal- la geometria euclidea anche se non possiamo esattamente definire a quale geometria appartamene certe curve. Sempre l'uomo esperimenta, poi vengo- no i teorizzatori. Ancora Xenakis si domanda quanto i musicisti siano stati influenzati dalla teoria cinetica dei gaz o dalla legge di Poisson ecc. Certamente il musicista è molto attento alla "natura con le sue leg- gi in rapporto al senso dell'udito" per tornare all'aurea definizione di Goethe--Webern (le leggi storicizzate naturalmente) ma non credo che le scoperte scientifiche abbiano mai direttamente influenzato le conce- zioni musicali: si può parlare se mai di una globale concezione del mon- do compresa sopratutto quella politica. In un suo articolo apparso come introduzione alla Sociologia della musica Adorno parla di "forze produt- tive musicali che talvolta possono far esplodere le condizioni di produ- [p. 3] zione, talvolta esserne schiacciato" o altrove parla della musica che può essere "sia un fatto sociale sia una forma in sé, che si libera dalle sol- lecitazioni sociali immediate". Come si vede non si può affrontare la que- stione in semplici termini alternativi. Ritornando a concrete verifiche io penso che Varése (amico guarda caso di scienziati tipo Openheimer) che sognava già nel 25-30 di manovrare masse di suoni-rumori poteva benissimo ignorare tutto sulla leggo di Poisson, ma ha contribuito a dare un bel scossone al parametro altezza pur senza arrivare ala completa identifica- zione suono-rumore. Come le scoperte scientifiche non sono mai opera di un individuo isolato ma conseguenza di scoporte precedenti o potenziali così avviene per quelli musicali; se ne conclude che tutti quelli che passano oer "precursori" sono in realtà per definizione "del loro tempo" giustamente osserva Charbonnier, gli altri non sono che dei ritardatari. Qui ci si può divertire a confrontare i titoli delle opere di Varése e di Xenakis; da soli sono indicativi di un mondo mutato: Density, Ionisa- tion, Integrales ecc. il primo, ST4 (su un programma probabilistico) Polytope (distribuzione spaziale) Torretektorn (o Sonotron acceleratore di particelle sonore), Analogico A, B, dove i suoni sono scelti statistica- mente in zone arbitrarie di frequenze intensità, e densità; le zone cam- biano socondo un procosso di eventi a catena (processo di Markov); come si vede Varèse si riferiva a concezioni scientifiche in generale, Xenakis cerca stretti rapporti tra leggi scientifiche e concezioni musicali. Que- ste sono constatazioni, non giudizi sul piano dei valori. Del resto quali valori? Ci si stupirà comunque a sentire parlare di "scoperte musicali"; eppure il principio di masse acustiche statisticamente distribuito é un princi- pio compositivo nuovo meccanicamente parlando. Di qui deriva l'equivalenza suono-rumore. (Nella musica concreta l'utilizzazione del rumore non aveva ancora affrontato rigorosamente l'organizzazione dei nuova parametri). Dove siamo ora noi che per anni siamo stati con l'occhio fisso al frequen- zimetro e al contasecondi a controllare numeri e non certo "insiemi" o "galassie"? Il passaggio da un ordine stabilito a un nuovo tipo di ordine comporta sempre un momento di apparente disordine: la rivoluzione non é mai indolore. E' avvenuto che dei rapporti siano entrati in crisi, si sia- no irrigiditi quando noi li volevamo fluidi senza però che ci scappassero [p. 4] dL mano; il suono come altezza singola si é perso nella massa e non si trattava certo di trovargli una nuova organizzazione ma di lasciarlo per- dere, organizzando invece le masse stesse in rapporto alla loro densità, il che comportava inevitabilmente un'altra organizzazione del tempo. Come é noto non si pub toccare certi punti chiave senza intaccare radicalmente l'intero edificio. Considerato come fenomeno di massa oggi l'evento sonoro dà luogo a una sorta di contemporaneità di eventi che nega il tempo. Come per Pitagora gli oggetti matematici, i numeri, anche se del tutto reali sono eterni e fuori del tempo. Certe nostre strutture mentali del prima e del dopo sono state nesse in discussione; così come abbiamo perduto o moglio abbandona- to le altezze individuali dell'evento sonoro, abbiamo abbandonato la de- terministica scansione del tempo, la platonica definizione del ritmo come "ordine nel tempo". Xenakis, riprendendo l'antico discorso di Pitagora parla di "strutture algebriche fuori dal tempo" di possibili mutazioni mentali nei riguardi di questo parametro o di ritrovare, musicalmente par- lando nuovi rapporti logici tra le durate temporali e quelle spaziali. Si dirà che tutto questo è un vero guazzabuglio: non si distingue più il suono dal urmore, nessuna consequenzialità tra un evento e l'altro, e ades- so si tenta anche di negare lo scorrere del tempo, di scappargli avanti, di prenderlo alla rovescia, magari di arrivare prima di partire... Certo non siamo arrivati il "linguaggio" quello per intenderci di Bach e di Mo- zart, ma le premesse fisiche e matematiche per arrivarci ci sono. La cosa più impotante é di non prendere paura, di non restare a metà strada con un piede fuori e uno dentro magari aprofittando della confusione. Gli ascoltatori medi e non medi sotto sotto si sentono ingannati ma non osano ammetterlo, ingoiano i prodotti, magari gli restano sullo` stomaco ma fanno finta di niente; che ci vuoi fare. Le avanguardie sono così, passerà.... Abbiate pazienza, lasciatemi riprendere ancora per un momento la questione del tempo prima di cercarne le sue relazioni con la densità. Che la libera- zione dalla schiavitù del tempo periodicamente diviso sia un'esigenza del musicista evoluto, lo prova il fatto che a livello elementare, (canzonette popmusica ecc.) il supporto della scansione ritmica é ineliminabile, e forse é questo il cordone ombelicale che non si può tagliare senza un [p. 5] grave schok dell'ascoltatore musicale a livello infantile. Schoenberg diceva "emacipazione della dissonanza"; andiamo più in là e diciamo "emancipazione dal ritmo" che è poi un modo piú sottile di viag- giare sia nel tempo che nello spazio secondo equazioni che già la mate- matica ci offre. Strawinski guardava gli oggetti sonori contemporaneamente in tutte le loro sezioni a dispetto della loro successione temporale; ma restava sempre il concetto di rete, per cui il tracciato da un punto x a un punto y dava sempre per risultato angoli e rette. Webern invece aveva dato per scontati i percorsi e preso in considerazione i punti come poli isolati, universi immobili e autosufficienti. Ora noi tentiamo di strutt- rare gli oggetti secondo percorsi curvi, di ruotarli, in moto circolare che è un altro modo di uscire dal tempo. "L'ovvia considerazione secondo cui la musica é un'arte temporale ha un doppio senso per cui significa che iI tempo,non é affatto una sua ovvia caratteristica, che anzi costituisce pur essa un problema; l'unico fine della musica profana dell'intratteni- mento cha distoglie dal noioso prolungarsi del tempo lo dimostra. Questo fine sopravvisse nel rapporto con il tempo della musica autonoma: tale rap- porto è altrettanto legato al tempo quanto contro di esso antiteticamente rivolto. Se il tempo è il medium che, essendo fluente sembra opporsi ad ogni "cosificazione" allora é proprio la temporalità della musica ciò per cui essa si condensa in qualcosa di duraturo e autonomo, in oggetto, in cosa. Il termine forma rimanda l'articolazione temporale della musica all'ideale del suo spazializzarsi..." Così la pensa Adorno. Quindi non nel succedersi degli eventi ma nella loro organizzaione e sin- tesi abbiamo la forma: udire la luce = vedere il suono, equazione affasci- nante alla quale pare avesse pensato già il nostro creatoro quella volta che si decise : all'Inizio aveva in mente forse solo le simmetrie, le forme a specchio, ma quando volle ripetere il progetto rovesciandolo, e la cosa non gli riuscì perfettamente o, avendo della fantasia, pensò a lievi va- riazioni in modo che se ne accorgessero in pochi ma, sotto sotto pensava anche lui a un'unità formale, a una convergenza spazio-tempo. Così succes- se che il piede sinistro é più grande del destro, che un occhio ci vede di più o di meno dell'altro e così le orecchie per non parlare delle mani per cui uno deve sapere scegliere quale gli servo meglio. Probabilmente essendo un emisfero cerebrale occupato a controllare quell'altro non ha [p. 6] tempo per controllare sé stesso, e questo è bene perché certe piccole infrazioni hanno appunto evitato la ripetizione meccanica delle due parti e noi ci saremmo trovati noiosi a noi stessi, così come troviamo noiose le perfette simmetrie che non esistono nelle forme degne di tale nome. Per quel che riguarda la musica si consiglia dunque di ascoltare per in- tero le forme a specchio, quelle di Bach come quelle di Schoenberg; nessu- no si illuda d'aver capito tutto dal progetto di destra perché quello di sinistra potrebbe essere diverso a parte che la distinzione destra e sini- stra potrebbe non avere senso; inoltre i musicisti hanno spesso applicato degli specchi molto complicati, i rovesciamenti dei rovesciamenti etc. per cui non si capiva più se si trattava del modello da specchiare o dello specchio che diveniva modello. Anche le "forme-sonata" delle sinfonie di Mozart o di Beethoven sono da ascoltare per intere purché anche se si possono tagliare a metà e si sa in anticipo che avendo percorso il commi- no da A a B sarà di rigore tornare da B a A, questo ritorno infilerà dei vicoli molto gustosi, come certe improvvise deviazioni dovute apparente- mente a pezzi di autostrada disastrata; insomma una cosa è andare dalla tonica alla dominante dove tutto può andare liscio, una cosa ritornare dalla dominante alla tonica dove ci possono essere intoppi e difficoltà a ritrovare il punto preciso. Naturalmente tutte difficoltà che ci si in- venta appunto come se le era inventate il nostro creatore per annoiarsi meno. Dobbiamo dunque concludere che proprio perché imperfetti noi siamo una forma e andiamo in cerca di forme. Chiedo scusa per questa che apparentemente, è una digressione dalla ri- cerca di quel nostro nuovo parametro apparso all'orizzonte ma le deviazio- ni ogni tanto ci vogliono; in questo caso aver anticipato un discorso sul- la forma, senza aver esaurito quello sulla formalizzazione dai parametri significa appunto non rispettare una troppo rigida successione. Ora cer- chiamo di storicizzare tutta questa faccenda. Abbiamo detto che abbiamo perso un parametro; pare invece che non si perda mai niente per lo meno Adorno preferisce parlare di "oblio" più che di perdita "la storia si é disposta a Un'elaborazione universale di tutti gli elementi che difficil- mente potrà essere di nuovo abbandonata". Infatti, se oggi parliamo di blocchi e non di linee (chiunque si vergognerebbe a scrivere una melodia) [p. 7] sappiamo che non solo di questo si tratta, ma di un più profondo conver- gere di tutte le dimensioni; già tra le masse di Varése e Stockhausen e la densità di Xenakis c'è una differenza e tra queste ultime e le forme ruotanti di Koenig c'é ancora una differenza. Con lo studio di Utrecht siamo finalmente e definitivamente entrati ín quella che fino ad oggi era stata chiamata impropriamente "musica elettronica". La densità nella storia. Siamo partiti da molto lontano; dai responsori gregoriani, dalla scoperta delle polifonie ecc. Uno dei primi esempi di "massa sonora" lo troviamo in Perotino del sec. XII; in lui il continuum dei segnali é interrotto solo in modo costante dalla durata del fiato sostenuto ìn ogni caso dal tenor gregoriano eseguito dall'organo. La integrazione tra organo e voci inteso polifonicamente é forse paragonabile a quella raggiunta da Xenakis tra segnali elettronici e strumentali., In Perotino c'è una specie di accanimento feroce nel liberarsi dalla mi- stica atemporalità del fluire gregoriano per bloccare una verticalità spazio-temporale tutta immersa nel presente, dove l'iterazione degli in- tervalli frequenziali si modifica solo con il modificarsi delle vocali (e questo interessa sia il timbro che il ritmo) con variazioni che sono una specie di lontananza prospettica ci fa apparire sfocate sempre però all'interno di una staticità che non ha più níente di estatico e il cui carattere rivoluzionario non é Impallidito dopo otto secoli di storia. Ma che cosa sono otto secoli? Perotino e Xenakis suonano alle nostre orecchie ugualmente contemporanei; ín quest'ultimo troviamo esempi in cui la sta- ticità del contesto non fa che inglobare e celare una articolazione atomiz- zata sia nelle frequenze che nel ritmo (ma si può ancora usare tale termi- ne per un parametro che ci dà una dimensiono del tempo completamente mu- tata? IN Xenakis il parametro densità é perseguito con uguale accanimen- to e con una sottigliezza che solo l'eccessiva vicinanza (al contrario di Perotino) rende ardua la percezione. Niente succede, ma forse tutto succede; la successione non é avvertibile. Diciamo che nei due esempi ciò che è stato affermato, e anche molto energicamente, lo è stato con [p. 8] un'operazione di sottrazione piuttosto che di addizzione, con questa dif- ferenza: che in Xenakis tutta una storia di articolazioni del materiale è stata volontariamente negata, in Perotino questa stessa articolazione non era ancora iniziata e appaiono invece i primi sintomi audacissimi di affer- marla. E' come se qualcosa non ancora raggiunto e qualcosa cui ci si é sot- tratti si dessero la mano e si affiancassero senza ricorrere per questo a cicli storici ma semplicemente con indifferenza della storia. Naturalmente niente ritorna sui propri passi percorrendo l'identico cammino (essere al di qua o essere al di là evidentemente si equivalgono e nello stesso tempo non sono la stessa cosa); come sempre le nostre orecchie elettroniche o me- glio il nostro ascolto elettronico coglie dal passato ciò che più gli con- viene, suppone delle mutazioni e le provoca. Quello che appare chiaro è che ad ogni mutamento l'uomo ha affermato delle leggi sfidando la natura; ha creato forse dei mostri che potranno eventualmente accettare l'appella- tivo di "bellezza" ! Comunque, sia nell'arte che nella scienza investigare il fenomeno, modifica il fenomeno stesso; fino a che punto il "conoscere" significa anche "trovare" é da stabilire di volta in volta. Beato Picasso che non cercava ma trovava; noi non troviamo ma cerchiamo: forse qui sta la differenza fondamentale tra la sovrana posiziona dell'artista individua- lista che immediatamente ci precede. Mai avremmo potuto cogliere dalle lab- bra di Bach simili affermazioni. Ritorniamo alle masse così come ne possiamo constatare la presenza nelle mu- siche polifoniche dei fiamminghi del 400 e in quelle elettroniche dell'at- tualissimo studio di Utrecht. Le distanze geografiche hanno ancora un peso: in un paese dove la luce é scarsa, il cielo chiuso e, anche emozionalmente tutto si rivolge all'interno, il cervello s'immerge in speculazioni oscura- mente complicate, il risultato fonico appare duro e angoloso alle nostre orecchie latine. Questo vale specialmente per i primi fiamminghi Obrecht e Ockegem e meno per Josquin des Pres che aveva conosciuto a lungo la chiari- tà solare dei nostri cieli. Nel fluire orizzontale delle voci le masse erano variamente articolate e spesso sostenute dall'organo o da trombe: una specie di piedistallo costante nel tempo e nello spessore sul quale queste masse si adagiavano senza dar luogo ad alterazioni notevoli nei rapporti di quantità di segnali; quello che conta per noi oggi dopo secoli di sche- [p. 9] matismi ritmici e frequenziali, é questa massa compatta dove l'articola- zione è ancora statica, una specie di sintesi tra Eraclito e Parmenide; gli arresti cadenzati non sono ancora stabiliti, le cellule singole anche se differenziate si elidono nel contesto, non possiamo isolare gli incisi tematici senza intaccare il peso strutturale del tutto, come dire che esi- stono i singoli destini umani ma che è il destino dell'umanità che conta, che esistono le morti ma non la morte e così via.... In termini più concreti non esiste in tutto il 400 fiammingo polifonico quel tema contro cui combat- teva invano Schonberg dodecafonico ! E ciò che piú ci affascina, nessuna aprioristica volontà espressiva. Con Monteverdi i singoli percorsi si evi- denziano sempre di più fino ad uscire dalla massa polifonica e a privile- giarsi. Il dramma umano sale alla ribalta e con la morte di Monteverdi na- scerà la melodia accompagnata, la rivoluzione dello "stilo moderno". Da Monteverdi a Verdi il cammino sarà lungo. Con Gesualdo da Venosa invece ritorniamo paradossalmente alla concezione di blocchi simili a quello di Perotino. Ci sono delle figure nella storia che pongono delle premesse che la storia non raccoglierà. Sembra che il loro compito sia solo quello di distruggere non di costruire. Oggi possia- mo parlare così di Cage; e sono figure positive a parte il codazzo di gen- te che vive di rendita continuando a distruggere quando non c'è più nien- te da distruggere e c'é chi ha già cominciato a costriuire. Gesualdo però è molto interessante per noi perché il suo spazio sonoro è talmente denso che ne può derivare una sensazione di soffocamento, cioè una mancanza di spazio. Non ci sono buchi nei madrigali di Gesualdo e la conseguenza è sem- pre la stessa: dove non c'é spazio non c'è tempo: la dimensione religiosa delle ultime opere di Gesualdo ne è la riprova. Procedendo nella storia dove possiamo ritrovare il parametro densità forse non cercato ma affermato? Ci sono dei preludi del Clavicembalo ben tempera- to di Bach (ovviamente l'alterna polifonia delle fughe non poteva fissarsi in blocchi così compatti) in cui avviene proprio un addensamento costante intorno a un nucleo che quasi esclude le articolazioni di qualsiasi para- metro: modulazioni vicinissime, intensità e timbri invariati; tutto sembra immobile all'interno di un fluire mobilissimo. Bach poteva concedersi an- che molto poco per costruire oggetti che si rigiravano su sé stessi come corpi astrali; non era poi tanto lontano dall'uso del "sequencer" come [p. 10] viene praticato oggi a Utrecht; un uso così diffuso che é già divenuto quasi un abuso. Chi ha qualcosa da dire se saltiamo da Bach a Mahler a Varése e a noi? e poi magari ritorniamo ai greci o ai gregoriani? C'é per esempio una par- ticolare densità nell'Adagio della X° di Mahler ottenuto da fascie di fre- quenze nelle zone medie e in quelle acutissime degli archi che per la pri- ma volta si spingono in regioni quasi ultrasoniche. Ci sono inoltre conti- nue variazioni di densità da quella iniziale di un unico strumento a quel- la totale e dilagante che copre o pare coprire tutto lo spazio cromatico, per lo meno tutto lo spazio di cui allora si potesse disporre. Non dico che si possa parlare qui di densità nel senso quantitatio avulso dal para- metro intensità o timbro, ma ci siamo vicini. Del resto, come già dicevamo, é davvero possibile isolare completamente un parametro? Chi ha sognato di farlo coscientemente è stato Varèse. A 14 anni ebbe l'in- tuizione della sua "estetica musicale leggendo uno studio sullo Zambese, un grande fiume africano dove si trattava della varietà delle correnti e delle loro differenti velocità (Ouellette) Questa è solo anneddottica. Cer- to Varése sognava di lavorare con materiali che ancora non esistevano. Qua- do Poté farlo il suo intervento sulla densità di masse che rifluiscono una sull'altra rimase in funzione espressiva, non nel senso banalmente senti- mentale, ma piuttosto incantatoria. Il fatto di aver intitolato "Density" un pezzo per flauto riferendosi, pare, alla densità del platino con cui era costruito lo strumento, era dunque un suggerimento solo esteriore non certo uno stimolo a mettersi in gara con la densità di strati sonori. C'é in Varése un frammentarismo di cellule sonore che pur provenendo da quella Strawinskiane, se ne differenzia per un collegamento che arriva quasi alla sovrapposizione; ne deriva allora un continuum che possiamo già chiamare densità; resta però da varcare un grosso confine: la strutturazione di que- ste masse in oggetti sonori. Come dire passare dallo spontaneismo all'or- ganizzazione. O ancora in altri termini passare dal termine ancora generico di masse sonore a quello di blocchi controllabili nello spazio e nel tempo. Questa é un grosso problema per risolvere il quale solo le ultime scoperte della matematica ci possono aiutare. Per Webern era stato relativamente facile relazionare i due parametri: altezza e ritmo; la sua matematica era ancora di ordine deterministico. Ora perduti sia l'altezza che il ritmo [p. 11] non c'è che da cavalcare la tigre e accettare il fatto di una rivoluzione permanente. Abbiamo la teoria degli ineismi, il controllo del voltaggio e infine quelli cho possono apparire come gli ultimi protagonisti: i calcola- tori. Forse di nuovo oggi i fiamminghi sono in testa. Qui si cerca di sistematizza- re e generalizzare un linguaggio per opera non di un solo individuo ma di un'équipe di ricercatori ad alto livello; ma come dicevo in un'opoca in cui tutto è rimesso in discussione non appena tenta di stabilizzarsi e in cui talvolta gli ingegneri offrono ai musicisti modelli tecnici i cui sug- gerimenti i musicisti stessi non sono preparati a cogliere può sembrare vana la speranza di trovare un sistema così stabilizzato come quello tonale. Al futuro lo conclusioni. Per oggi lo orecchie del pubblIco in generale rifiutano certe musiche o ne restano sgomenti come davanti a fenomeni abnormi, a una specie di creature focomeliche. In realtà la musica oggi come ieri non sta cercando il suo pubblico ma sta creandolo: de- va incidere su strutture mentali che sembrano legate a leggi biologiche ineluttabili; sappiamo poco sull'acustica e ancora meno sulla fisiologia dell'orecchio; ma non il fatto di saperne di più aiuterà sostanzialmente i musicisti. Il loro operare procederà probabilmente o coinciderà con le scoperte ín altri campi. Che l'orecchio possa dostingure simultaneamente la dimensione orizzontale e quella verticale è ancora poco, già Schoenberg ci aveva pensato, ora si parla di universi ruotanti su assi che di cartesia- no hanno conservato solo il nome, di parallele che s'incontrano, di spazi vettoriali.... Sembrerebbe qui che la matematica formalizzata fosse appli- cabile meccanicamente e dall'esterno alla musica ma non é così: la musica si serve della matematica come di un mezzo, di un supporto logico ma non resterà mai solo un'astratta speculazione mentale, non rinuncerà mai "al suo corpo" al meravigìioso fenomeno fisico del "suono". Teresa Rampazzi aprile 1973