OCR Piccolo discorso con Michela, «Autobiografia della musica contemporanea» (a cura di Michela Mollia), Cosenza, Lerici, 1979, pp. 122-126 ============================== [p. 122] Piccolo discorso con Michela Teresa Rampazzi Alle tue domande di natura quasi cosmica risponderò parlando di modesti fatti concreti. Per esempio, sono arrivata alla musica elettronica semplicemente assistendo alla sua nascita, o meglio nascendo insieme, ascoltando i suoi primi vagiti nella grande sala di Marienhöhe a Darmstadt. (Veramente il termine arrivata non è esatto; noi non arriviamo mai in nessun posto, essendo sempre in cammino). Nella sala grande, dunque, per la prima volta, l'ing. Heimert presentò, circa 27 anni fa, un piccolo generatore di frequenza a valvole. I musicisti lo guardarono con diffidenza o non gli diedero molta importanza. A me sembrò che quel piccolo, insidioso oggetto sarebbe certamente cresciuto, si sarebbe moltiplicato, avrebbe sconvolto il mondo, s'intende il mondo sonoro. Ho già detto altrove che non si possono richiedere lunghi discorsi ai neonati. Avendolo dunque subito adottato con entusiasmo, mi rimisi anch'io a balbettare, a mettere insieme dei segnali solo per pochi minuti alla volta; non erano ancora frasi e neppure parole. Chiusi e vendetti il pianoforte, che già avevo cominciato a distruggere con gli esperimenti fatti con John Cage (addirittura martellate) e mi comperai il piccolo generatore visto a Darmstadt. Con quello solo e con un registratore mono, tentai la mia prima esplorazione elettronica. [p. 123] Per le sovraincisioni ponevo un cartoncino davanti alla testina di cancellazione! Tirai così avanti con procedimenti del tutto primitivi. Formai un primo gruppo di adepti. Più che di gruppo, si trattava di una setta quasi clandestina, pronta a lanciarsi in qualsiasi tipo di avventura. Era pattuito che tutti lavoravano anonimamente sotto la sigla NPS (Nuove Proposte Sonore). Uno studente di ingegneria elettronica riempì con dei primi circuiti a transistors una serie di scatoline da thè, e le trasformò in tanti generatorini, una vera nidiata pigolante. Non ricordo quale forma d'onda ne uscisse, ma certamente non era sinusoidale. Per risolvere il problema del ritmo, interrompere cioè in qualche modo il segnale senza ricorrere al solito esasperante taglio di nastro, ricorremmo a quegli strumentini con i quali si inviano i messaggi telegrafici, i tastini Morse, munendoli in modo quasi mostruoso di cavi input o output. Il problema del riverbero lo risolvemmo piazzando una cassa acustica sulla tromba delle scale, diramando la preghiera che, durante l'incisione, nessun inquilino del condominio entrasse o uscisse dal suo appartamento. Ciò nonostante non potemmo evitare che il tonfo di una porta si incidesse (e si distingue ancora) in quella, diciamo così, composizione, precisamente la Ricerca 4. Più tardi, sempre con questi mezzi da acrobati di seconda o terza mano, escogitammo il modulatore ad anello o il controllo del voltaggio, senza neppure essere ben coscienti di che cosa si trattava. E così di seguito. Mi domando ancora adesso come avvenne che qualcuno, per la verità pochissimi, ci prese sul serio. In principio ci fu dunque il verbo, cioè il generatore, ma non i generati; in seguito i genitori e i figli si moltiplicarono, diventarono anche troppi. Si usciva dall'uno e si entrava nell'altro, come tu ben sai, Michela. [p. 124] Un musicista italiano, tanto per non fare nomi Paolo Castaldi, disse allora malignamente che tutto il lavoro dei nuovi compositori consisteva nell'infilare buchi di uscita e buchi di entrata. Solo che bisognava sapere quali erano i buchi giusti, se vogliamo continuare un po' brutalmente il discorso. Cominciarono allora i diagrammi di flusso o i patchs, piccoli programmi di percorso, tanto per non confondersi e provocare dei corti paralizzanti: press'a poco come entrare in un appartamento e volere andare in bagno passando per il soggiorno. Perché no, potrebbe pensare qualcuno; va bene la logica, ma il soggiorno potrebbe avere doppia funzione, oppure potrei trovare più divertenti dei percorsi fantasiosi anche se meno economici. Ma questo non piaceva ai soliti praticoni americani, i quali pensarono di mettere insieme tutti gli strumenti già belli e collegati, facilitando, ma anche limitando così, le passeggiate eccentriche da una stanza all'altra. Non potevi entrare di qua, se non uscivi di là; ossia lo potevi anche fare, ma a tuo rischio e pericolo, provocando disastri o il totale silenzio, che, in questo caso, diventa un disastro sonoro. A meno che il silenzio a durate definite non sia già dentro al programma. Infatti, l'ultimo nato, il controllo del voltaggio, automatizzava certi percorsi; per evitarne la ripetizione ostinata, si ricorse al controllo dei controlli dei controlli. Siamo arrivati dunque al sintetizzatore, dove l'operatore (per non dire compositore o ingegnere) può trovarsi nell'imbarazzante posizione di essere imprigionato da un numero esorbitante di cavi multicolori e di non sapere più da dove è uscito e dove è entrato. Del resto, quello che penso del sintetizzatore te l'ho già detto. L'ho detto un po' per scherzo, un po' per cattiveria. Infatti qualche composizione anch'io l'ho tirata fuori dal piccolo grande mostro, ma mi sono messa nella situazione del domatore che entra nella gabbia dei leoni. Sapevo infatti che alla mia più piccola esitazione la belva mi scappava di mano o addirittura mi aggredi- [p. 125] va. Mi sono allora rivolta al calcolatore. Ne risultò una specie di studio sulle durate che si chiamò appunto Computer 1800 oppure dal rumore al suono e viceversa. Comunque pensavo che il calcolatore era finalmente una persona seria con il quale si poteva iniziare un dialogo muovendosi su un terreno più sicuro. Ricominciai tutto da capo, e, con mia grande sorpresa scopersi all'inizio la lentezza, non certo del calcolatore che per conto suo andava velocissimo, ma quella dei procedimenti necessari per intendermi con lui. Il vero apprendistato non avvenne in tempo reale. Non lavoravo con calcolatori concepiti per far musica. Ero dunque io che forzavo lo strumento come anni prima avevo forzato il generatore. Come tu sai, Michela, per parlare al calcolatore bisogna farlo nel suo linguaggio, e quindi bisogna impararlo. Se vuoi intenderti con un cinese devi studiare il cinese; è vero che anche il cinese può studiare l'italiano o un linguaggio comune che sia una via di mezzo. Infatti il calcolatore sta imparando ora molte cose che riguardano la musica e ci risponde in tempo reale un po' schematicamente ma in modo abbastanza soddisfacente. All'inizio bisognava pazientemente perforare schede o nastri e riempirli di dati, cacciarli poi dentro alla stampante o caricarli come si dice in gergo, aspettare il tabulato e mettersi in coda. Si poteva anche chiedere alla stampante quale turno ti toccava, e quella ti rispondeva « awaiting for job » sei all'ottavo, al settimo al secondo posto e finalmente ti sciorinava davanti fogli e fogli come fossero la manna. Naturalmente se avevi messo solo una virgola un po' più in qua o peggio se l'avevi semplicemente dimenticata ti avvertiva dell'errore e dovevi ricominciare. Nei casi scalognati ti rispondeva « job not found », insomma aveva perso per strada il tuo programma o questo era andato a cacciarsi nei meandri della sala macchine. Ammesso che tutto fosse andato bene tu avevi il tuo tabulato in mano ma non sapevi come suonava e, siccome non eri un commerciante che voleva sapere i profitti della sua dit- [p. 126] ta, dovevi aspettare il giorno fissato per la trasmissione, e accorgerti allora che i tuoi ordini erano stati puntualmente eseguiti ma che il risultato non ti piaceva per niente. Questa era la tragedia. In questo modo si poteva portare avanti per anni una ricerca, ma non realizzare una composizione musicale. Per certe cose quantizzabili il calcolatore va più veloce dell'uomo, ma per altre di natura più sottile il cervello dell'uomo ancora lo batte; e non credo sia solo una questione di tempo. Io non conosco abbastanza questo super mostro per permettermi giudizi definitivi o comunque incauti, ma sospetto che per il momento esso sia dotato più «di esprit de géometrie » esprit de finesse. Sono per ora d'accordo con Jean-Claude Risset il quale non a caso non è americano ma francese. Cito testualmente: « Il est moin utopique de nous servir intelligemment de l'ordinateur que de vouloir lui inculquer l'intelligence pour nous servir ». Su questa precisa affermazione si scontrano oggi molte correnti filosofiche; l'uomo si è sempre valso di strumenti che amplificassero le sue possibilità d'intervento sul mondo. Non è da escludere se non per un atto di fede, che gli strumenti futuri e forse già presenti sfuggiranno al controllo dell'uomo e segneranno la sua fine. Padova 1-2-78